È pur sempre lunedì. Quindi resta il beneficio della tara. Ma la prima sensazione è che chi da ieri ha avuto il semaforo verde ha preferito stare fermo. Aspettare. Per almeno due motivi. Intanto l’ordinanza piovuta dall’alto a neanche 24 ore dall’apertura ha concesso il minimo tempo possibile per adeguare i locali agli standard di sicurezza imposti dal decreto. «E poi — come spiega Andrea Linguanti dell’osteria Luca e Andrea — dobbiamo capire se la gente si sente sicura per andare a mangiare in un ristorante. Ci tocca pure misurare la febbre e servire ossobuchi con i guanti in lattice». Non si apre tanto per aprire. Meglio prendersi qualche giorno. E buttare l’occhio per vedere cosa e come va il vicino di insegna. Anche chi ha deciso di aprire lo ha fatto con lo stesso sentimento: «Vediamo come va».
Se il Governo e lo stesso Attilio Fontana chiedevano un approccio particolarmente prudente per la regione più colpita dall’epidemia, meglio (o peggio di così, dipende dai punti di vista) non poteva andare. Chi si aspettava l’euforia di un dopoguerra, deve fare i conti con questa falsa (ri)partenza. Le ansie economiche e le paure sanitarie restano lì come nuvoloni neri sui tavoli dei locali dei Navigli. Pochi apparecchiano nella capitale della movida, che scopre quanto sia per ora più sicuro continuare il piccolo cabotaggio dell’asporto. Solo una decina tra bar e ristoranti hanno aperto davvero in questa alba di Fase 2 e mezzo. In città la media non aumenta di molto. «Faremo il massimo per i nostri clienti, ma saremo prima o poi costretti anche a fare due conti», ammette Maida Mercuri, storia signora del Pont De Ferr. All’angolo c’è una pizzeria napoletana: una coppia si divide una Margherita con l’aria di chi quasi si sente in colpa. C’è chi invece ha aperto solo per la prima di una lunga serie di sanificazioni. Più azoto che clienti, più alcol che coperti.
In Galleria Vittorio Emanuele sono tutti chiusi: Savini, ma anche il Marchesino, Biffi, il Gatto Rosso. Motta, che ha anche ristoranti e food market, su tre piani, ha aperto solo il bar per l’asporto a piano terra. Probabile che il vero test sarà il weekend. In stand-by restano anche i big dei fornelli, come Carlo Cracco, Andrea Berton e Davide Oldani. Apre invece e si commuove come al primo giorno di scuola Filippo La Mantia: «Negli occhi di una signora al tavolo ho visto la gioia del ricordo che tornava realtà», dice.
Calma piatta e fuochi spenti, tranne qualche ravioleria take-away, anche a Chinatown: sono stati i primi a chiudere e probabilmente diventeranno anche gli ultimi a riaprire. Mentre, complice la giornata estiva, si consumano le prime pause pranzo ai tavolini dei ristoranti dell’Arco della Pace, la piazza da cui è partita nei giorni scorsi la protesta dei ristoratori. «La paura di tornare al lavoro c’è, perché siamo a contatto con persone diverse durante il giorno, ma sono felice di essere tornata», dice una cameriera. Il sentimento non è proprio quello della felicità. Anche chi mangia lo fa con un approccio strano: «Avevamo perso l’abitudine», dicono due ragazzi che si dividono la nuova normalità in qualche metro di sicurezza. Per ora non è facile alzare la saracinesca anche per i bar: da una parte l’assist del Comune di poter sforare sul marciapiede con i tavoli, dall’altra la naturale predisposizione dei banconi a fare da calamita per i giovani con il drink in mano. Ieri però qualcuno si è potuto concedere il lusso dei primi caffè al tavolino, anche se molti lamentano la beffa del ritocchino di prezzo e dei primi happy hour soprattutto dalle parti di corso Como.
Chi invece non soffrirà la crisi di rientro sono i parrucchieri, la più attesa delle aperture in programma lunedì. C’è Antonino, che nei suoi 4 metri quadri di bottega storica sul Naviglio già alle 9 del mattino attacca la serie di appuntamenti che ha preso su un’agenda d’altri tempi. Sfoltisce e spara disinfettante dietro la maschera rinforzata dalla visiera. In 50 anni di attività non gli era mai capitato di prendere le forbici in mano di lunedì. Sono sold out anche i barber shop più modaioli e i saloni delle signore, con attese di una settimana per tagli, pieghe e tinte, dato che le prenotazioni devono tenere conto della pausa sanificazione.
Sono quasi tutti aperti, ma semideserti, i negozi del Quadrilatero, dove ci si dovrà abituare a convivere con i solchi lasciati dall’assenza del portafoglio dei turisti. Causa politica del numero chiuso, un accenno di coda si vede da Zara e da H&M, che iniziano la terapia dello sconto per smaltire l’invenduto di una primavera in quarantena. I camerini restano chiusi e i clienti faticano a metabolizzare la rivoluzione per cui i vestiti si provano a casa e, soddisfatti o rimborsati, al limite si torna con il reso. La Rinascente apre ai primi 2500 rispetto ai canonici 30 mila e consente il lusso della prova, a costo di «sanificare» gli abiti non acquistati con le vaporelle a 100 gradi. Con mascherine, gel, conta persone, guanti e termoscanner, ha aperto quasi un negozio su due in centro. Molti meno allargandosi dalla cerchia. Riaprono anche quelli all’interno della stazione Centrale: sarà la penuria di passeggeri in transito, ma nessuno si accorge della differenza con i giorni scorsi.
Si procede in ordine sparso, ma colpisce e in parte tranquillizza che tutti rispettino le regole. Il sindaco Sala domenica ha usato la metafora della città che si riaccende, attraverso le vetrine. Milano è uscita dal buio della sua quarantena. Ma le luci accese fanno tutto un altro effetto.
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