È emerso “un complessivo disegno criminoso in danno dei riders, per fini di profitto” in cui erano “coinvolti sia i manager Uber che i titolari/gestori delle società intermediarie”, un “sistema volto all’illecito arricchimento, sfruttando la condizione di inferiorità, di vulnerabilità e di bisogno dei lavoratori reclutati”. Lo scrive la gup di Milano Teresa De Pascale nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 15 ottobre, è stata inflitta la prima condanna in un processo penale per caporalato sui fattorini che fanno le consegne di cibo a domicilio. Poco meno di 3 mesi fa, infatti, è stato condannato in abbreviato a 3 anni e 8 mesi Giuseppe Moltini, uno dei responsabili delle società di intermediazione (Flash Road City e Frc) coinvolte nell’inchiesta del pm Paolo Storari che aveva portato al commissariamento, il 29 maggio 2020, della filiale italiana di Uber, revocato lo scorso marzo dai giudici dopo il riconoscimento del percorso “virtuoso” intrapreso. La gup ha anche deciso di convertire il sequestro di circa 500 mila euro in contanti in un risarcimento da 10 mila euro a testa per i 44 fattorini parti civili e da 20 mila euro per la Cgil.
Nelle 205 pagine di motivazioni, nelle quali ripercorre gli atti dell’inchiesta che ha portato a processo ‘ordinario’ anche la manager (sospesa) di Uber Gloria Bresciani, la gup chiarisce che “è indubbia la lesione dell’integrità psico-fisica” dei rider che lavoravano “in assenza delle misure minime di sicurezza, sfruttati e degradati, pagati con cifre irrisorie, vincolati al rispetto di standard quantitativi e qualitativi imposti”, trattati “come lavoratori subordinati, ma privi delle correlative tutele”. E costretti “psicologicamente” ad accettare “sfavorevoli e degradanti condizioni di lavoro proprio a causa del proprio stato di subalternità economica, sociale e personale, dovuto alla condizione di immigrati, provenienti da Paesi sottosviluppati, privi di documenti validi per soggiornare sul territorio nazionale, in assenza di valide possibilità di scelta alternative più decorose”. Un forma, riassume la gup, di “caporalato grigio”.
Lo “schema” era “semplice”: Uber metteva “l’applicazione, il sistema di pagamento e il marchio”, mentre “gli intermediari” si occupavano “delle relazioni con i ristoranti e del rapporto con i lavoratori”. E, poiché l’offerta di lavoro superava “la domanda – si legge ancora – per molti aspiranti riders, nonostante i problemi con la lingua o sui documenti in regola” si creavano “dei meccanismi di reclutamento” che riducevano “al minimo il proprio margine di guadagno, per cui per la maggior parte di essi ‘fare il rider è meglio di niente'”. Si tratta “a tutti gli effetti – scrive il gup – di un’ipotesi di ‘caporalato grigio'”, ossia “una situazione nella quale i lavoratori sono costretti a lavorare senza alcuna tutela e/o garanzia, a firmare fogli di dimissioni in bianco, a subire sopraffazioni retributive e trattamentali in un regime di costante ansia, dovuta alla possibilità di perdere il lavoro”.
I rider, chiarisce la gup, hanno subito “un danno patrimoniale per le differenze retributive non corrisposte, per il mancato versamento delle ritenute d’acconto e per la sottrazione fraudolenta delle mance”. E pure “un danno non patrimoniale, biologico e morale, per la lesione alla integrità psico-fisica, essendo stati costretti ad effettuare le consegne anche, e soprattutto, in orario serale e notturno, in condizioni atmosferiche avverse, ad utilizzare il cellulare durante il tragitto, a lavorare anche in condizioni di malattia, rischiando incidenti stradali a bordo di mezzi spesso non idonei”. Il tutto “in assenza di qualunque controllo sanitario ed in violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro”.
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