
«Era già sera, bussavano alla porta. Nostro padre Nemo, da buon capofamiglia, scese i gradini di quel magazzino, un ex deposito di stracci in Ripa Ticinese, dove ci eravamo trasferiti dopo i bombardamenti. La nostra casa in viale Papiniano non c’era più. Alla porta, insieme alla nebbia, un uomo distinto con borsalino e sciarpa. Chiede di Alda. “Ma lù chi l’è?” la domanda di papà, in stretto milanese. “Sono Salvatore Quasimodo”, sussurrò lo sconosciuto. Cercava mia sorella, cercava Alda. Era il 1950. Stupiti, quel giorno cominciammo a capire che quella piccola donna, in quella umile casa, qualche genialità l’aveva davvero». Esordisce così, a dieci anni dalla morte di Alda, Ezio Merini, fratello della poetessa celebrata tra le voci poetiche più alte del Novecento. Terzogenito (Anna la più anziana classe 1926, Alda del 1931), Ezio, nato nel 1943, ricorda la sorella nel periodo della giovinezza. Lui solo l’ha vissuta quando era ancora una ragazza. «Lei scriveva sempre, a casa o nello studio legale in cui aveva cominciato a lavorare. Ma sulla macchina per scrivere spesso rimanevano poesie, anziché sentenze. Tanto che l’avvocato un giorno, spiandola, le disse: “ma questo l’hai scritto davvero tu? E allora, cosa stai qui a fare?”»
Fiaccolata sui Navigli per Alda Merini
«La guerra poi ci ha portato via da Milano — continua il fratello — eravamo sfollati a San Salvatore Monferrato: ricordi sfumati. È come se quegli anni non li avessimo vissuti». Ezio ricorda bene invece quel tema, assegnato nel 1955, quando frequentava il Cattaneo: «La professoressa di lettere ci aveva dato un titolo a scelta. Nostro padre era appena morto e io volevo raccontare quel lutto, che mi aveva segnato il cuore, ma non trovavo le parole adatte. Chiesi aiuto ad Alda e lei iniziò a dettare: una paginetta, poco più. Il primo della classe scrisse invece otto pagine. Il giudizio dell’insegnante fu entusiasta e severo nello stesso tempo: “questa è poesia, io non posso correggere una virgola ma non l’hai certo scritta tu, sentenziò». Quel giorno anch’io compresi la statura di Alda. Alda che aveva vinto un premio nel 1941, un premio fascista, dedicato alle piccole poetesse d’Italia. Vinse 1000 lire e venne presa in braccio da Mussolini: a quei tempi contava». Poi però i ricordi si fanno bui, la malattia e il manicomio: «Lavoravo in Brera, ripensa Ezio, in uno storico colorificio, avevo la Lambretta e con quella, appena potevo, andavo ad Affori: lì c’era il Paolo Pini e dietro i cancelli c’era mia sorella che non diceva niente e non sembrava neanche soffrire, mi chiedeva solo una sigaretta. Non ho mai pensato che Alda fosse pazza, a quei tempi si confondeva spesso il guizzo geniale con la malattia mentale».
I ricordi si fanno serrati: «Al Paolo Pini i ricoverati erano divisi per rioni, quelli del Ticinese, quelli di Porta Romana, quelli del Lorenteggio, ognuno marchiato dal suo. Incontravo spesso facce conosciute: “ma cosa fai qui?” non rispondevano, chiedevano solo spiccioli o sigarette. In quegli anni — sottolinea Ezio — le porte del manicomio si aprivano con troppa facilità. E chi ci entrava rimaneva marchiato. Oggi basterebbe il medico curante, qualche pillola e uno psicologo. Alda non ha mai dato manifestazioni di follia. Passavo i miei giorni a Brera, in mezzo ai più grandi artisti di allora. Le stranezze del genio erano concentrate lì. Gli artisti sono personaggi che vivono al confine della normalità, una linea di demarcazione che Alda rasentava ma senza far danni a nessuno, neppure a lei». «Non parlavamo mai di poesia — sottolinea il fratello — parlavamo di cose pratiche, della famiglia, dei bisogni. E poi Alda rideva, le piaceva raccontare barzellette. Io l’ascoltavo, sempre con piacere, con lo stesso piacere di quando, di nascosto, leggevo le sue poesie. Quella che mi è rimasta nel cuore è Il Gobbo, una delle prime: “Dalla solita sponda del mattino io mi guadagno palmo a palmo il giorno: il giorno dalle acque così grigie, dall’espressione assente…”. La porto sempre con me. È il suo spirito e mi tiene compagnia». E proprio le più belle poesie di Alda Merini sono riproposte, nel decennale della sua scomparsa, dal Corriere della Sera nella riedizione della collana tascabile diVersi (a cura di Nicola Crocetti).
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