
«Che belle trecce. Anche mia figlia le porta così». Nel 1944, Tilde e le sue sorelle, Luisa, Vanna e Annamaria, giocavano nel giardino della loro villa, a Robecco sul Naviglio. Oltre la recinzione c’era una truppa di soldati tedeschi, che in tempo di guerra, aveva requisito lo stabilimento di famiglia, attiguo alla villa, per farne un laboratorio. Uno dei militari si avvicinava spesso a salutare le bambine. Ignaro, come i suoi commilitoni, che proprio in quella bella villa padronale, Anita Scotti, la figlia del defunto podestà e nonna delle bambine, teneva nascoste due famiglie ebree. Angelo, suo padre, era scomparso nel 1939, dopo aver guidato il paese dal 1932 al 1936. Ma seppur cresciuta in una famiglia fascista, Anita, che durante la Prima Guerra Mondiale aveva servito come crocerossina, era di fede liberale e non si limitò ad ospitare le due famiglie, salvandole dalla deportazione: in più d’una occasione, rivelò una tempra e un coraggio formidabili.
Una notte, guidò uno dei suoi carri nei boschi fino al ponte sul Ticino a Vigevano, per accompagnare oltre il fiume una delle sue ospiti e consegnarla ad amici, che riuscirono a condurla in Svizzera. Qualche mese prima, inoltre, d’intesa con il medico condotto del paese e con il direttore dell’ospedale di Abbiategrasso — il dottor Emanuele Samek Lodovici, futuro senatore nelle file della DC — portò al «Cantù» un’altra delle sue ospiti, una donna ultraottantenne, che aveva avuto un grave malore. Con l’anziana amica si lasciarono con una raccomandazione, in dialetto milanese: «Ma racumandi, la disa nient (Mi raccomando, non parli per nessun motivo)». Per evitare controlli e soffiate, fecero credere che l’anziana fosse sordomuta.
A scoprire la vicenda, di cui si era persa memoria, è stato Dario Tonetti, ex consigliere comunale e storico locale, autore del libro «Chiamaci ancora», dedicato e personaggi del secondo conflitto mondiale, a Robecco. Nell’ultimo capitolo, ci sono la riproduzione di una pergamena inviata nel 1956 a Anita dalla Comunità Israelitica di Milano «a ricordo perenne di gratitudine degli Ebrei d’Italia» e la testimonianza di una delle due famiglie ospiti. Anita, nata nel 1885, dopo aver frequentato le Orsoline a Milano aveva sposato, a 19 anni, Faliero Gabbiano di Prato. Rimasta vedova a soli 27 anni, tornò a vivere in famiglia coi figli Fausta e Franco. I suoi genitori avevano un vasto podere e lei prese in mano le redini dell’azienda. Nel primo dopoguerra, avviò con il fratello lo stabilimento attiguo alla villa che, nel 1944, fu requisito dai tedeschi. Fu un anno tragico per Robecco: il 20 luglio in una rappresaglia i nazisti uccisero otto persone e ne deportarono sessanta.
Oggi nella villa vivono le nipoti di Anita: Tilde, Vanna e Luisa che ricordano quei giorni: «Al primo piano vivevano una donna molto anziana e sua figlia Nella. Di cognome facevano Pontremoli. Prima di venire da noi si erano nascoste a Casatenovo e la signora più anziana restò con noi anche dopo la guerra». Più stretto fu il legame con le altre giovani ospiti, Luisella e Lidia Cava, oggi 92 e 88 anni. Luisella, allora 14enne, visse per qualche mese a Robecco, con due zie e la nonna, ovvero l’anziana che fu portata in ospedale. «È stato un periodo straziante. Ci ha portato via la fanciullezza. Da un giorno all’altro ci hanno tolto tutto, siamo state cacciate dalla scuola che frequentavamo. Nostra zia, che era maestra, a Robecco fece lezione in casa alle nipoti di Anita», racconta al telefono Luisella che, ancora pronuncia a fatica la parola «persecuzione» e dice semplicemente «il fatto». «La nostra famiglia era divisa, non avevamo nulla, eravamo senza tessere per comprare da mangiare. Ma, nel continuo peregrinare per salvarci siamo stati tanto aiutati da Anita e poi da Ernesto Carena, che ci accolse dopo di lei, a Ferrera, in Piemonte».Negli anni del dopoguerra, Anita non parlò quasi mai di quanto accaduto. Neppure quando sua figlia fu accusata pubblicamente di appartenere a una famiglia che aveva fiancheggiato i tedeschi. «Mi ricordo bene di Anita, era una donna vivace e molto intelligente», dice Luisella Cava. Con le nipoti era severa, ma spiritosa e allegra. «Era colta, leggeva molto e si interessava a tutto. Quando venivano a trovarci i nostri amici, prima passavano un po’ di tempo a parlare con lei, poi chiedevano di noi», dicono le sue nipoti. «Questa vicenda mostra l’importanza della trasmissione della storia, perché spesso si giudica senza conoscere», dice lo storico Dario Tonetti.
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